28 ottobre 2016
IL SOVRAINDEBITAMENTO E IL PIANO DEL CONSUMATORE
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1.- Premessa
La legge 27 gennaio 2012 n° 3 si propone di dettare misure in materia di usura e di crisi da sovraindebitamento.
Ricorda molto una fenice, il noto uccello mitologico famoso per il fatto di risorgere dalle proprie ceneri dopo la morte, se è vero – come lo è – che essa venne preceduta dal DL 22 dicembre 2011 n° 212 ("disposizioni urgenti per l’efficienza della giustizia civile"), le cui disposizioni vennero abrogate dalla legge di conversione del 17 febbraio 2012 n° 10, per risorgere – per l’appunto – con la legge n° 3 del 2012.
L’originario impianto normativo contenuto in questa legge venne poi stravolto dall’intervento effettuato con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, grazie al quale siamo arrivati alla attuale formulazione del testo normativo.
Direi però che, invece di rinascere giovane e potente, la legge n° 3 ha assunto la forma di un Cerbero, un mostro mitologico tricefalo con un unico corpo: c’è solo da augurarsi che essa non duri 500 anni, come la vera Fenice.
Infatti, come vedremo nel corso della relazione, la materia del sovraindebitamento, probabilmente a causa della sua sofferta gestazione (caratterizzata dai tre interventi normativi sopra riassunti), è disciplinata in modo caotico ed incoerente, con l’utilizzo in non pochi casi dello stesso termine per indicare due cose differenti o, viceversa, di termini diversi per indicare il medesimo oggetto.
Numerose lacune la caratterizzano. Tra queste il grande assente è un complesso di norme che disciplini i rapporti giuridici pendenti del debitore o del consumatore.
Dal punto di vista operativo, la legge presenta tutte le sue vulnerabilità: al sovraindebitato – e cioè ad un soggetto che per definizione è privo di sufficienti disponibilità economiche - viene chiesto di pagare, mediante il suo patrimonio, una pletora di soggetti, che vanno dal difensore per la proposizione del ricorso, al gestore della crisi, al liquidatore per la monetizzazione del patrimonio, ai costi di procedura (tra i quali, eventualmente, anche quello di un ctu).
Fatta questa breve premessa, passiamo ora all’esame della legge.
2.- Gli organismi di composizione della crisi.
Il Dm 24 settembre 2014 n° 202 disciplina il registro degli organismi di composizione della crisi, a norma dell’art. 15 della legge 3/2012.
Si prevede che alcuni organismi siano iscritti di diritto nel registro di cui al Dm citato e siano pertanto ex iure organismi di composizione della crisi.
Si tratta degli organismi di conciliazione costituiti presso le camere di commercio, il segretariato sociale costituito ai sensi dell' articolo 22, comma 4, lettera a), della legge 8 novembre 2000, n. 328 e gli ordini professionali degli avvocati, dei commercialisti ed esperti contabili e dei notai.
Non mi pare che ad oggi vi sia una sufficiente diffusione di tali organismi e la constatazione è confermata dal fatto che presso il tribunale di Reggio Emilia tutti i ricorsi sono stati preceduti dalla nomina di un gestore della crisi ai sensi dell’art. 15, nono comma, della legge 3/2012.
Il primo problema che qualunque ufficio giudiziario deve affrontare al momento del deposito del ricorso è quello della natura dello stesso.
Si tratta, comunque, di un tema niente affatto teorico, che interessa non solo il tribunale, ma anche lo stesso ricorrente, come vedremo subito tra poco.
Il problema è, dunque, di stabilire se il ricorso ex art. 15, nono comma, sia un procedimento totalmente autonomo ed indipendente da quello introdotto ai sensi dell’art. 9 e che termina, pertanto, con l’emissione del decreto di nomina da parte del presidente del tribunale o di un giudice da lui delegato, oppure se tale ricorso sia esso stesso l’atto introduttivo del procedimento di composizione della crisi.
Ora, è vero che se il debitore consumatore si rivolgesse direttamente agli organismi di composizione, così ottenendo all’interno dello stesso OCC, la nomina di un gestore della crisi, il procedimento inizierebbe con le forme dell’art. 9, ossia con il deposito della proposta o del piano.
Sicché, si potrebbe dire che l’inizio del procedimento non può che essere uguale per tutti i casi: sia che il debitore chieda la nomina al presidente del tribunale, sia che si rivolga direttamente all’OCC.
Tuttavia questa modalità di inizio della procedura non è sufficiente per affermare che la procedura ex art. 15 sia autonoma ed indipendente rispetto al procedimento ex art. 9, come pure mi è sembrato di capire leggendo vari interventi sul forum delle procedure concorsuali.
In altre parole, a mio modo di vedere, se è corretto affermare che il procedimento inizia ex art. 9 quando il debitore si rivolge direttamente agli OCC, è altrettanto corretto affermare che il procedimento inizia con il ricorso ex art. 15 quando il debitore ritiene di non rivolgersi all’OCC, ma preferisce chiedere la nomina del gestore della crisi al presidente del tribunale.
La conferma di quanto sopra la si trae dall’art. 7, secondo comma, lettera b) della legge 3/2012, che sanziona con l’inammissibilità la proposta di accordo o di piano quando il debitore "ha fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, ai procedimenti di cui al presente capo": capo che comprende anche l’art. 15 della legge.
E tale previsione mi sembra non solo del tutto opportuna, onde evitare che il debitore chieda "a ripetizione" e magari presso vari tribunali la nomina del gestore della crisi (sino a che non ne ha uno di suo gradimento), ma presuppone – in tutta evidenza – che l’inizio del procedimento di sovraindebitamento possa coincidere con il deposito ex art. 9 della proposta di accordo o di piano già formulata con l’ausilio dell’OCC, oppure con il ricorso al presidente del tribunale (o ad un giudice da lui delegato) per la nomina del gestore della crisi.
Ne deriva pertanto che, a seguito del deposito del ricorso per la nomina del gestore della crisi, la procedura di composizione sia già pendente: da ciò deriva tutta una serie di conseguenze delle quali non avremmo dovuto occuparci se avessimo aderito all’opposta tesi dell’autonomia del procedimento ex art. 15.
Gli aspetti peculiari li vedremo più tardi.
3.- Decreto di nomina del GC e prassi dei tribunali
Decidendo sui primi ricorsi proposti a seguito dell’entrata in vigore della legge, si è potuto constatare che il ricorrente – una volta ottenuta la nomina del Gestore della crisi – non dava corso ad essa o vi dava corso con notevolissimo ritardo.
Questo è – naturalmente – uno dei primi problemi che derivano dalla tesi dell’autonomia o della non autonomia del procedimento di nomina del gestore della crisi ex art. 15.
Si è inoltre constatato che i ricorrenti potevano essere suddivisi in due macrocategorie.
Una di queste categorie è formata da consumatori veri e propri o da piccoli imprenditori c.d. sotto soglia: si tratta nella quasi totalità dei casi di persone facenti parte di famiglie monoreddito, che hanno perso il lavoro o la loro principale fonte di sostentamento a causa della crisi dell’imprenditore datore di lavoro o della propria piccola impresa.
La seconda categoria è composta da debitori non consumatori, in genere ex soci di società di capitali, sovraindebitati a causa delle garanzie prestate in favore di banche per i debiti della società (che, di solito, è stata posta in liquidazione, in concordato o addirittura è stata dichiarata fallita).
Questi ultimi, avendo comunemente ancora sufficienti disponibilità economiche residue, hanno incaricato un difensore, dandogli mandato di presentare ricorso ex art. 15 e corrispondendogli uno o più acconti di notevole ammontare, in qualche caso ben più alto di quello che il gestore della crisi avrebbe avuto diritto di ottenere ai sensi del Dm 202/2014 (questo, almeno, è ciò che l’esperienza ha messo in luce presso il tribunale di Reggio Emilia).
A me è sembrato pertanto necessario prevedere nel decreto di nomina del gestore della crisi – ovviamente sul presupposto che sia fondata la tesi della non autonomia del procedimento ex art. 15 - il deposito di un fondo per il pagamento delle spese dell’intero procedimento e, in primo luogo, per la remunerazione del GC (del tutto analogamente a quanto avviene nel CP).
Mi è parso di poter rinvenire, a tal fine, una base normativa nell’art. 8, primo comma, del Testo unico sulle spese di giustizia 30 maggio 2002 n° 115, che infatti prevede: "Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l'anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato".
Nei decreti di nomina del gestore della crisi (almeno in quelli del tribunale di Reggio Emilia) è stata dunque posto a carico del ricorrente l’onere del deposito di un importo ragguagliato ai parametri previsti dagli artt. 14 e seguenti del Dm 202/2014.
Ovviamente non esiste nel procedimento di composizione della crisi una norma analoga a all’art. 163, terzo comma, della l.f..
Questa norma – com’è noto – stabilisce che qualora il ricorrente per CP non esegua il deposito prescritto, il commissario giudiziale provvede a norma dell’art. 173, primo comma, ossia riferisce al tribunale il quale apre d’ufficio il procedimento per la revoca dell’ammissione al concordato.
Non esistendo tale norma o disposto simile è chiaro che le conseguenze del mancato deposito della somma fissata nel decreto di nomina del GC non possono avere immediatamente la conseguenza della revoca del decreto stesso.
Nondimeno l’art. 13, comma 4-bis, prevede che: "I crediti sorti in occasione o in funzione di uno dei procedimenti di cui alla presente sezione sono soddisfatti con preferenza rispetto agli altri, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti".
E gli fa eco, sebbene con testo scoordinato, l’art. 14 duodecies, comma 2, il quale prevede: "I crediti sorti in occasione o in funzione della liquidazione o di uno dei procedimenti di cui alla precedente sezione sono soddisfatti con preferenza rispetto agli altri, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti".
Sulla scorta di tali disposizioni, a me sembra incontestabile che il deposito per le spese fissato nel decreto di nomina del GC generi un credito a favore del procedimento (o quantomeno un obbligo del ricorrente) e che pertanto possa essere compreso tra i crediti "sorti in funzione" dei procedimenti di accordo o di piano e della liquidazione del patrimonio.
Ora, l’art. 14 della legge – sebbene abbia un titolo incoerente ("impugnazione e risoluzione dell’accordo") e sembri pertanto riferirsi al solo accordo del debitore – è collocato tra le norme del §4 intitolato "esecuzione e cessazione degli effetti dell’accordo di composizione della crisi e del piano del consumatore".
Esso pertanto si applica ad entrambe le tipologie di procedure.
Il secondo comma dell’art. 14 prevede testualmente che "se il debitore non adempie agli obblighi derivanti dall’accordo (…) ciascun creditore può chiedere al tribunale la risoluzione dello stesso".
Del pari, gli artt. 10, primo comma, e 12 bis, primo comma, impongono al giudice di verificare, tra le varie condizioni, la fattibilità del piano o dell’accordo.
In conclusione, a me pare che se l’omesso deposito del fondo spese da parte del debitore non possa di per se provocare una dichiarazione immediata di inammissibilità, sia però suscettibile di essere valutato come fatto che rende manifesta l’infattibilità dell’accordo o del piano o come circostanza che legittima una domanda di risoluzione (nel qual caso non vedo come potrebbe essere omologato un accordo o un piano quando è già presente una causa di risoluzione dello stesso).
In conclusione, nella prassi applicativa il termine per il deposito del fondo spese viene considerato (o, almeno, a Reggio Emilia è stato considerato) come un termine ordinatorio.
Il debitore può procedere al deposito anche tardivamente e lo può effettuare anche in parte, purché il tardivo o parziale deposito non possa essere interpretato come espressione anticipata ed inequivoca della volontà di non adempiere al piano.
4.- Soggetti che possono fare ricorso alle procedure da sovraindebitamento
L’art. 6, primo comma, attribuisce la legittimazione a proporre ricorso per la composizione della crisi al "debitore".
Di primo acchito sarebbe bastato tale termine ("debitore") per ricomprendere un’ampia categoria di soggetti, ma dalla lettura del secondo periodo del primo comma, si apprende che anche un’altra figura, il "consumatore", è legittimato a fare ricorso agli istituti della legge 3/2012.
A questo punto, il lettore della norma si interroga sulla correttezza della distinzione tra le due figure: l’insieme dei debitori, teoricamente, comprende quello dei consumatori indebitati. A che pro la distinzione?
Leggendo più oltre nel testo normativo si riceve subito la risposta e si nota che mentre al debitore "è consentito … concludere un accordo con i creditori", il consumatore "può anche proporre un piano" ai sensi dell’art. 7.
In ciò la legge 3/2012 si distingue dal DL 212/2011, il quale prevedeva per entrambi i soggetti l’unica procedura di "accordo".
Accordo e piano sono dunque due procedure distinte, alle quali possono fare ricorso i debitori ed i consumatori: ma mentre questi ultimi possono accedere a entrambi, al debitore è consentito solo la procedura mediante accordo.
Giunti a questa conclusione, l’interprete si domanda come possa distinguersi tra debitore e consumatore indebitato, posto che entrambe le figure sono caratterizzate dalla presenza di un "situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte".
La risposta arriva dall’art. 6, secondo comma, lettera b), il quale stabilisce che "ai fini del presente capo, si intende: (…) b) per "consumatore": il debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta".
La dizione originaria contenuta nel DL 212/2011 è stata opportunamente ampliata.
Il Dl 212/2011 definiva infatti "il sovraindebitamento del consumatore" come "il sovraindebitamento dovuto prevalentemente all’inadempimento di obbligazioni contratte dal consumatore, come definito dal codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206".
Tale definizione – che andava benissimo nell’impianto del DL 212 (in quanto questo era diretto a disciplinare solo il sovraindebitamento del consumatore) - avrebbe generato notevoli dubbi sotto il vigore della nuova legge, diretta a disciplinare non solo il sovraindebitamento del consumatore, ma anche quello di altri categorie di debitori.
Facendo applicazione del disposto normativo, si ha dunque che il debitore, che ha tra le passività del proprio patrimonio obbligazioni inadempiute derivanti da attività di impresa, deve essere considerato "debitore", mentre è inquadrabile nella figura del consumatore il soggetto parte passiva di obbligazioni non derivanti da attività imprenditoriali o professionali.
Nella prassi applicativa è spesso accaduto che a far ricorso alle procedure per la composizione della crisi da sovraindebitamento sia un garante di società di capitali, fallite o poste in liquidazione.
Nel caso i cui le attività della società non siano sufficienti a soddisfare tutti i creditori sociali, il garante è spesse volte chiamato ad adempiere personalmente.
L’ipotesi più frequente è quella della fideiussione prestata dal socio di società di capitali: in questa ipotesi – dato che il socio (a norma dell’art. 1936 cc) si è obbligato personalmente verso il creditore onde garantire l’adempimento del debito sociale – è evidente che il garante non possa far ricorso alla procedura di piano, ma solo a quella di accordo, in quanto nel suo patrimonio non si trovano "esclusivamente" obbligazioni che egli ha assunto "per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale svolta".
Assolutamente diverso il caso – peraltro teorico, poiché mai occorso nella pratica del tribunale di Reggio Emilia – del socio di società di capitali che ha prestato pegno o ipoteca a garanzia dei debiti sociali.
Dato che il terzo datore di ipoteca non è personalmente obbligato, mi pare che il proponente possa fare ricorso sia alla procedura di piano, sia a quella di accordo, nonostante il debito garantito con l’ipoteca attenga ad una attività imprenditoriale (beninteso, sempreché le altre obbligazioni siano tutte estranee a tale attività).
Stessa cosa può dirsi per il pegno costituito dal terzo.
Vi sono poi alcune disposizioni contenute in leggi speciali, ma anche nella stessa legge n° 3, che estendono la possibilità di fare ricorso alle procedure da sovraindebitamento anche a soggetti diversi dal debitore e dal consumatore.
Invero, mentre la legge definisce il consumatore come "persona fisica" (art. 6, secondo comma, lettera b), l’aggettivo "fisico/a" non viene utilizzato per ciò che concerne la figura del debitore.
Ed in effetti già in base al primo periodo del primo comma dell’art. 6, si può notare che i soggetti (diversi dai consumatori) che possono fare ricorso alle procedure di composizione della crisi sono quelli "non soggetti, né assoggettabili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate" dal capo II.
Sicché direi che anche l’imprenditore collettivo c.d. "sotto soglia" (intesa come soglia quella prevista dall’art. 1 della l.f.) può fare ricorso agli istituti della legge 3/2012, ad esclusione del piano ovviamente.
E l’osservazione è confortata anche da alcune disposizioni particolari che impongono o consentono a soggetti collettivi di fare ricorso alle procedure disciplinate dalla legge 3/2012.
Si allude in primo luogo all’art. 7, comma 2-bis, della legge in commento, che prevede "(…) l'imprenditore agricolo in stato di sovraindebitamento può proporre ai creditori un accordo di composizione della crisi secondo le disposizioni della presente sezione".
Gli fa eco l’art. 31, primo comma, del DL 179/2012, che recita "1. La start-up innovativa non è soggetta a procedure concorsuali diverse da quelle previste dal capo II della legge 27 gennaio 2012, n. 3".
Come già anticipato, la legge sul sovraindebitamento è caratterizzata da un testo normativo assolutamente incoerente.
Ne abbiamo qui un esempio: mentre l’imprenditore agricolo può ricorrere alla procedura di "accordo", la start-up innovativa può far ricorso alle procedure concorsuali previste dalla legge 3/2012, tra le quali quella di accordo e quella di "piano".
Mi pare però che la norma che consenta il ricorso al piano solo a chi ha obbligazioni estranee alla propria attività professionale o imprenditoriale (art. 6, secondo comma, lettera b) consenta di affermare che non solo l’imprenditore agricolo, ma anche la start-up innovativa possano fare ricorso al solo accordo e non anche al piano.
Nella prassi applicativa del tribunale di Reggio Emilia si è inoltre verificato un caso particolare, che ha messo in evidenza l’ennesima mancanza di raccordo tra la legge 3/2012 con altre norme concorsuali.
Il caso (che presumibilmente si verificherà con una certa frequenza) è questo: un socio di una società di persone viene dichiarato fallito unitamente alla società.
Il fallimento è chiuso anni addietro e il fallito persona fisica, ritornato in bonis, non fa ricorso alla procedura di esdebitazione prevista dagli artt. 142 e seguenti della l.f.
Com’è noto, il termine finale per la proposizione di esdebitazione è, ai sensi dell’art. 143, primo comma, della l.f., un anno dalla chiusura del fallimento (nonostante non vi siano precedenti giurisprudenziali noti, almeno a me, tale termine viene considerato perentorio).
A distanza di qualche anno, evidentemente pressato da qualche creditore rimasto insoddisfatto nell’ambito della procedura fallimentare, l’ex fallito propone un ricorso per la nomina del gestore della crisi ex art. 15: ricorso diretto a dare inizio ad una procedura di composizione della crisi per debiti rimasti insoddisfatti nel fallimento.
È ammissibile tale ricorso?
Questa domanda ovviamente può essere formulata in maniera più completa nel seguente modo: il socio di società di persone che non fa ricorso alla procedura di esdebitazione (per la quale è previsto un termine perentorio), può ottenere lo stesso effetto proponendo un ricorso per composizione della crisi da sovraindebitamento?
Oppure il decorso del termine perentorio per la proposizione dell’esdebitazione impedisce al debitore di ottenere altrimenti l’effetto voluto?
Il ricorso è ammissibile, tenuto conto del disposto dell’art. 7, secondo comma, lettera a), che – com’è noto - sanziona con l’inammissibilità la proposta di accordo o di piano formulata da chi "è soggetto a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo"?
Ora, con l’esdebitazione il tribunale "dichiara inesigibili nei confronti del debitore già dichiarato fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente".
Al contrario, l’accordo o il piano sono diretti a realizzare una ristrutturazione del passivo e la "soddisfazione" dei crediti.
Pertanto, mentre l’esdebitazione è un istituto coerente con quelle procedure concorsuali che, al loro termine, non determinano l’estinzione del residuo credito rimasto impagato, come ad es. il fallimento o la stessa liquidazione del patrimonio (art. 14 ter della legge 3/2012), l’accordo o il piano del debitore determinano l’estinzione del residuo credito (per la parte non soddisfatta), nel primo caso per effetto del consenso dei creditori e, nel secondo, in virtù dell’omologazione del tribunale.
Ne deriva, a mio parere, l’ammissibilità del ricorso per la composizione della crisi anche da parte del socio ex fallito di società personali, ed anche quando questi non abbia fatto ricorso all’esdebitazione prevista dagli artt. 142 e ss l.f.
Né pare d’ostacolo a tale soluzione il disposto dell’art. 7, secondo comma, lettera a), giacché non sembra che l’ex fallito possa considerarsi "soggetto a procedure concorsuali", a meno che alle obbligazioni pregresse non se ne siano aggiunte altre per effetto di una nuova impresa: ma in questo caso siamo evidentemente di fronte ad una nuova insolvenza.
5.- La formazione del consenso nell’accordo e nel piano.
Tutti possiamo constatare che la formazione di un accordo tra due o più parti è, di regola, rimessa all’incontro della volontà stessa degli stipulanti (art. 1372 cc).
In ambito non contrattuale la formazione dell’accordo o la sua modifica possono essere rimesse ad altri meccanismi giuridici.
Nel caso in cui vi sia una pluralità di persone, è di regola previsto dalla legge che la formazione della volontà avvenga con il principio maggioritario: in altre parole, mentre la modificazione di un contratto è demandata, ordinariamente, alla decisione di tutti i contraenti originari, in altre ipotesi la modificazione della pattuizione può intervenire quando la maggioranza (semplice o qualificata) degli interessati è d’accordo sulla modifica.
In tal caso, la minoranza subisce la volontà della maggioranza.
Questo sistema, com’è noto, è adottato dalla legge in ambito societario, in materia condominiale e in altri ambiti peculiari, quali ad es. quello fallimentare per alcune particolari procedure (concordato preventivo, concordato fallimentare; un tempo, sino al 16 luglio 2006: amministrazione controllata).
Ultimamente, il legislatore ha introdotto altri sistemi di formazione e variazione degli accordi inter partes.
Accanto all’unanimità dei consensi (negli accordi contrattuali) ed alla maggioranza degli interessati (nei casi di enti collettivi) si è previsto un sistema misto: un accordo con un gruppo di persone e la collocazione dei non appartenenti al gruppo in un insieme di soggetti definiti, nelle procedure concorsuali, estranei ("creditori estranei").
Così ad es. nel caso dell’accordo di ristrutturazione ordinario (art. 182 bis l.f.), nel quale il debitore, raggiunto un accordo con una certa percentuale dei suoi creditori, deve regolarmente provvedere al pagamento degli "estranei".
A seguito di una recente modificazione legislativa è stato introdotto un ulteriore sistema di formazione e modificazione della volontà: nell’ambito di un certo gruppo di creditori, gli effetti della volontà della maggioranza degli interessati sono estesi, ricorrendo certe condizioni, alla minoranza.
Così ad es. l’art. 182 septies l.f. prevede che il debitore possa chiedere al tribunale che gli accordi raggiunti tra lui stesso ed alcune banche siano estesi anche ai creditori non aderenti che abbiano posizione giuridica ed interessi economici omogenei.
Pertanto, mentre nell’accordo di ristrutturazione ordinario (art. 182 bis) i creditori sono distinti in due gruppi, aderenti ed estranei, nell’accordo di ristrutturazione speciale (art. 182 septies) i creditori sono aderenti ed estranei, ma all’interno di particolari gruppi formati da banche ed intermediari finanziari la formazione del consenso avviene analogamente alla procedura di concordato preventivo: una maggioranza fa estendere gli effetti dell’accordo anche alla minoranza non aderente.
In qualche caso, come ad es. in materia fallimentare, è previsto che la formazione e la modificazione degli originari incontri di volontà avvenga non solo con il principio maggioritario, ma anche con l’intervento dell’autorità giudiziaria, chiamata a verificare (con un procedimento omologatorio) che il percorso seguito dal debitore e dai creditori interessati rispetti taluni presupposti.
Fatte queste premesse, a quale tipologia appartiene il metodo di formazione della volontà nell’accordo e nel piano?
Prima di rispondere a questa domanda, occorre rammentare che il rapporto giuridico obbligatorio – di regola - può essere estinto o modificato:
_ concordemente ad opera delle stesse parti (art. 1372 cc), oppure
_ quando la legge attribuisce tale potere ad uno dei contraenti (ad es.: art. 1456 cc), oppure, ancora,
_ quando il potere di estinzione o modifica è consensualmente attribuito da una parte all’altra (ad es.: art. 1373 cc).
Ora, l’art. 8, primo comma, della legge 3/2012 prevede che "la proposta di accordo o di piano del consumatore prevede la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma".
Questa dizione ricorda molto quella della legge fallimentare contenuta nell’art. 160, dove – per l’appunto – si legge che "l’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma (…)".
Queste forme possono consistere, come prevede lo stesso art. 160 l.f., nella cessione dei beni, nell’accollo, in altre operazioni straordinarie, compresa l’attribuzione ai creditori, o a società da questi partecipate, di azioni, quote, obbligazioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito.
L’imprenditore che presenta domanda di concordato ha, dunque, la facoltà di modificare unilateralmente il rapporto giuridico obbligatorio, assegnando al creditore non più quello che era stato originariamente dedotto in obbligazione, ma un bene o un valore diverso.
Direi che questa facoltà dell’imprenditore che presenta domanda di concordato preventivo può essere chiamata "diritto potestativo": è in sostanza un diritto dell’imprenditore di modificare il rapporto giuridico col creditore se ricorrono determinate circostanze (consenso di un certo numero di creditori e omologazione del tribunale).
Non sembra errata l’affermazione secondo la quale il concordato preventivo rientra tra quegli altri atti o fatti, previsti dall’art. 1173 cc, idonei a produrre obbligazioni in conformità all’ordinamento giuridico (l’art 1173 cc stabilisce infatti che "le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle secondo l’ordinamento giuridico".).
Questo schema si ripropone anche nelle procedure concorsuali in esame.
Infatti, nell’accordo del debitore, come anche nel piano del consumatore, il sovraindebitato può ottenere unilateralmente la modificazione del rapporto giuridico creditorio, assegnando al creditore un bene della vita diverso da quello originariamente posto in obbligazione con il consenso di entrambe le parti.
Questa modificazione interviene però se ricorrono determinate altre condizioni.
Condizioni che consistono:
_ quanto all’accordo, nella prestazione del consenso di tanti creditori che rappresentano il 60% dei crediti (art. 11, secondo comma), e
_ quanto al piano, nella verifica da parte del giudice (che in questo sostituisce il consenso dei creditori) dei requisiti previsti dall’art. 12 bis, terzo comma ("Verificata la fattibilità del piano e l'idoneità dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all'articolo 7, comma 1, terzo periodo, e risolta ogni altra contestazione anche in ordine all'effettivo ammontare dei crediti, il giudice, quando esclude che il consumatore ha assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposamente determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità patrimoniali, omologa il piano (…)").
Come si può notare, le modalità di formazione del consenso sono diverse tra accordo e piano.
Nel caso dell’accordo, dette modalità sono praticamente analoghe a quelle del concordato preventivo.
Vi è infatti una maggioranza di creditori che vota una proposta e che, intervenuta l’omologazione, diviene obbligatoria per tutti i creditori anteriori alla pubblicità del decreto di fissazione udienza (art. 12, terzo comma).
Non mi sembra invece che il debitore possa raccogliere i consensi in modo analogo alla procedura di accordo di ristrutturazione ordinario, ossia raccogliendo singoli accordi bilaterali e che cumulativamente andranno a comporre la complessiva percentuale predetta (60%).
Questa possibilità è esclusa, a mio parere, in quanto – mentre nell’accordo di ristrutturazione la legge tutela i soggetti non aderenti collocandoli nel gruppo dei "creditori estranei" (aventi diritto al pagamento entro 120 giorni dall’omologa o dalla scadenza naturale dell’obbligazione) – nel caso dell’accordo da sovraindebitamento la legge non prevede creditori estranei da tutelare mediante la previsione di pagamento entro un determinato termine (dall’omologa o dalla scadenza, analogamente a quanto avviene nell’accordo di ristrutturazione).
E tanto meno esistono creditori estranei, appartenenti tuttavia ad un gruppo omogeneo, nei cui confronti il debitore può chiedere l’estensione degli effetti dell’accordo analogamente a quanto avviene nell’art. 182 septies l.f.
L’unica via possibile è dunque quella di un accordo unico, che possa essere sottoposto a tutti i creditori mediante il giudizio di omologazione.
Nel caso del piano, invece, non vi è un consenso da parte dei creditori, ma solo un controllo del giudice che, in sede di omologa, accerta – tra gli altri – i requisiti previsti dal menzionato art. 12 bis, terzo comma.
Per quanto ho detto sopra, mi pare chiaro che la disciplina della formazione del consenso sia solo in apparenza un tema di rilievo meramente teorico.
Deve infatti considerarsi che, per la riuscita del piano occorrerà – spesse volte – il consenso di uno o più creditori strategici, o che hanno un maggior peso nel passivo, oppure di uno o più creditori che sono controparti in rapporti contrattuali pendenti: il tema delle modalità di formazione del consenso ha, dunque, un certo rilievo nello studio della riuscita del piano e nella formulazione di esso, soprattutto quando il buon esito della votazione (o la mancanza di opposizioni all’omologa) è strettamente connesso con la scelta dalle singole modalità di liquidazione del patrimonio e di soddisfazione dei creditori.
6.- I rapporti giuridici pendenti
Ulteriore tema da affrontare nella formulazione del piano è quello del trattamento dei rapporti giuridici pendenti.
La legge sulla composizione della crisi da sovraindebitamento tace nel modo più assoluto su questo aspetto, peraltro di cruciale importanza.
La carenza non è isolata: anche nella legge fallimentare, a fronte di un complesso di norme che dettano nel fallimento una disciplina per alcuni contratti in corso di esecuzione (artt. 72 e ss l.f.), per il concordato preventivo la legge non dispone nulla, fatta eccezione per il nuovo art. 169 bis, intitolato – per l’appunto – "contratti pendenti", introdotto tuttavia solo con il d.l. 83/2012.
Nondimeno, quest’ultima norma, lungi da dettare disposizioni per i singoli negozi pendenti, si preoccupa solo di attribuire all’imprenditore che presenta il ricorso ex art. 161 l.f. un potere di sospensione o di risoluzione dei rapporti predetti (previa autorizzazione del tribunale o del g.d.), senza disciplinare per ciascuno (o, almeno, per qualcuno) di essi la sorte ed i diritti delle parti.
Tuttavia abbiamo visto sopra che la legge fallimentare e la legge 3/2012 attribuiscono al debitore o al consumatore un potere di modificare l’oggetto dell’obbligazione e di attribuire al creditore qualcosa di diverso dalla primitiva prestazione, purché gli offrano una "soddisfazione" e purché questo sistemazione sia approvata (a seconda dei casi) dal ceto creditorio, dal tribunale o da entrambi (gli attribuiscono, in sostanza, un diritto potestativo).
Ebbene, a me sembra che – anche in difetto di una disciplina speciale che regolamenti la sorte dei rapporti pendenti – sia sempre possibile per il debitore o per il consumatore intervenire sui rapporti predetti: intervento che può consistere nello scioglimento, nella modificazione, nella estinzione del negozio con creazione di altro negozio diretto a soddisfare il creditore, e – dato che dove sta il più sta anche il meno – nella sospensione dell’esecuzione del negozio.
Il riferimento normativo sul quale poggia questa constatazione è costituito dagli artt. 7, primo comma, ed 8, primo comma, delle legge 3/2012.
Dalle due disposizioni apprendiamo, infatti, che "la proposta di accordo o di piano del consumatore prevede la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma …".
Ora, quando parliamo di ristrutturazione del passivo e di soddisfazione dei creditori è evidente tra le passività da soddisfare vi rientrano appieno anche quelle derivanti da rapporti in corso.
È anzi di comune esperienza il dato che le passività derivanti da rapporti estinti ed ormai cristallizzati nel passato, e che hanno pertanto lasciato sussistere un credito avulso da un rapporto giuridico, sono statisticamente (almeno nei concordati preventivi) non superiori a quelle derivanti da rapporti in corso.
In altri termini, il passivo dei rapporti pendenti costituisce una parte rilevante del passivo generale consistente in posizioni di mero credito/debito.
La ristrutturazione del passivo e la soddisfazione dei ceditori passa, dunque, necessariamente attraverso la modificazione dei rapporti pendenti: modificazione che il debitore proporrà al singolo creditore o all’intero ceto creditorio (a seconda della procedura iniziata) e che servirà – di volta in volta – a consentire la prosecuzione dell’impresa, l’eliminazione di parte del passivo, la rimodulazione delle obbligazioni, ecc…. In una parola: servirà al superamento della crisi.
Ci sono limitazioni a questa unilaterale modificazione dei rapporti pendenti?
In altre parole, è consentito al debitore, nel momento in cui ristruttura il passivo e modifica il contenuto dell’obbligazione, imporre al proprio creditore – ad es. – il trasferimento della proprietà di un suo bene, assegnandoli nondimeno una "soddisfazione" prevista nel piano o nell’accordo?
Se vogliamo fare un esempio più concreto, possiamo chiederci se è consentito al debitore in crisi prevedere (nell’ambito della ristrutturazione del passivo e facendo uso del diritto potestativo di modificare il rapporto pendente) il trasferimento della proprietà in suo favore del bene concesso in leasing e soddisfare quindi il creditore con una somma di danaro.
È conforme a legge tutto ciò, oppure incontriamo limiti (eventualmente anche di rango costituzionale) che non consentono una ristrutturazione del passivo così aggressiva e brutale?
Confesso di non aver ancora riflettuto a sufficienza su tale tema, ma ad un primo e sommario approccio mi sento comunque di poter affermare che – allo stato attuale dell’arte – abbiamo un solo riferimento normativo che ci può aiutare (e che peraltro è contenuto solo nella legge fallimentare): l’art. 182 septies penultimo comma.
Tale norma recita: "In nessun caso, per effetto degli accordi e convenzioni di cui ai commi precedenti, ai creditori non aderenti possono essere imposti l'esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l'erogazione di nuovi finanziamenti. Agli effetti del presente articolo non è considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati".
Dato che la ristrutturazione del passivo rimane sempre ontologicamente uguale a se stessa, sia che la si faccia in un concordato preventivo, in un accordo di ristrutturazione o in una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, non mi sembra errata l’affermazione che la disposizione dell’art. 182 septies penultimo comma l.f. rappresenti un disposto applicabile in via analogica o estensiva anche alle procedure di cui qui ci occupiamo.
Indipendentemente da tale norma, mi pare che la soluzione al quesito che ho posto sopra possa essere impostata indagando i fondamenti costituzionali dei vari diritti che si vanno di volta in volta a coinvolgere.
Il primo articolo della Costituzione che mi viene in mente è l’articolo 42, secondo comma, il quale – com’è noto – stabilisce che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
La Corte costituzionale ha più volte fatto ricorso all’articolo 42, secondo comma, in qualche caso per conservare le norme sospettate di incostituzionalità (ad es. nel regime vincolistico delle locazioni, in materia di distanza delle costruzioni, in tema di vincoli urbanistici, ecc…), in qualche altro caso per eliminare le norme contrarie alla carta fondamentale (come ad es. nel caso della irrisoria rivalutazione del canone di affitto agrario o dei coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale dei fondi rustici).
Chissà che la ricerca dei limiti del diritto potestativo de quo attribuito all’imprenditore in crisi non porti gli interpreti alla riscoperta di quella distinzione che pure era stata formulata nel corso dei lavori della I e della III sottocommissione (formate in seno alla c.d. commissione dei settantacinque), consistente nella separazione tra regime della proprietà personale, frutto del lavoro e del risparmio, e regime della proprietà dei beni strumentali, finalizzata ad assicurare il coordinamento della vita economica ed al benessere di tutti.
Ne potrebbe derivare, a mio avviso, l’individuazione di un campo di intervento dell’imprenditore in crisi, nel quale egli, pur non potendo imporre ai creditori non aderenti «l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare gli affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti», potrebbe tuttavia modificare il rapporto giuridico obbligatorio nel senso di imporre a carico del creditore un trasferimento di proprietà di beni strumentali o produttivi, a fronte di una ragionevole soddisfazione.
E francamente tale trasferimento non mi sembrerebbe un assurdo, tenuto conto del secondo periodo del settimo comma dell’articolo 182 septies l.f., nel quale – per l’appunto – si stabilisce che «Agli effetti del presente articolo non è considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati».
Mi domando infatti se la coattiva prosecuzione del rapporto di locazione finanziaria non si identifichi – in ultima analisi e sotto un profilo economico – in un trasferimento di beni strumentali o produttivi che può essere imposto dal debitore in crisi al proprio creditore al fine di eliminare lo stato di insolvenza (dunque per l’interesse della generalità dei creditori).
Tenuto conto delle osservazioni sopra esposte, sarà l’applicazione pratica dell’istituto a mostrare i limiti ultimi della ristrutturazione.
Dall’applicazione pratica sapremo pertanto se il debitore o il consumatore sovraindebitato potrà, nel piano o nell’accordo, oltre che rimodulare i termini di adempimento e modificare l’oggetto della originaria obbligazione, creare nuovi rapporti giuridici finalizzati alla soddisfazione del creditore o determinare il trasferimento della proprietà dei beni in godimento o modificare la titolarità ed il contenuto dei diritti reali.
Ai posteri l’ardua sentenza. A me basta solo aver segnalato la possibile via che potrebbe prendere il piano del consumatore o l’accordo del debitore.
7.- Osservazioni conclusive sui rapporti pendenti
Certo è che l’espressa previsione del trattamento che il debitore intende assegnare ai rapporti pendenti costituisce un passaggio obbligato della proposta: se non di quella del piano del consumatore (nella quale i negozi pendenti potranno essere pochi e di minima importanza), molto più probabilmente in quella del debitore, dove i rapporti in corso potrebbero rappresentare una parte considerevole del passivo da ristrutturare.
Per tutto quello che è stato detto sopra, è – a mio parere – evidente che né il debitore, né – a maggior ragione – il gestore della crisi, che deva prestare il suo "ausilio" al primo, possono esimersi dal prendere in considerazione tutti i rapporti giuridici pendenti nel patrimonio del sovraindebitato, ma dovranno, invece, prendere esatta posizione nella domanda di accesso alla procedura ed esporre in essa quale sorte intendono riservare a tali rapporti (mantenimento, modifica, scioglimento, ecc…) e la soddisfazione che offrono alla controparte creditrice a seguito del cambiamento dell’oggetto dell’obbligazione.
D’altra parte questo è un passaggio obbligato per tutte le procedure concorsuali, che, infatti, si distinguono da quelle individuali proprio perché si svolgono sull’intero patrimonio del debitore (e non solo su singoli beni individuati da creditori procedenti) e nei confronti di tutti i soggetti che compongono il ceto creditorio (e non soltanto nei confronti di alcuni di essi).
Pertanto, volta che il sovraindebitato si rivolga, da solo o a mezzo di un altro professionista (solitamente un avvocato) all’OCC per ricevere ausilio ai fini della presentazione del piano o dell’accordo, occorre che l’OCC curi anche l’aspetto della completezza del piano o dell’accordo.
Completezza che sussiste solo ove il piano o la proposta di accordo contemplino non solo tutti i debiti e le obbligazioni residue, ma anche tutti i rapporti pendenti, onde prevedere per ciascuno di essi il mantenimento pieno, oppure una ristrutturazione in qualunque forma.
8.- I piani incompleti …
La mancata considerazione dei rapporti pendenti nella domanda di accordo o di piano determina l’incompletezza della domanda stessa.
Tale lacuna integra, a mio avviso, un’ipotesi di infattibilità del piano o dell’accordo.
Questa carenza potrebbe dar luogo ad una declaratoria di inammissibilità della domanda, laddove sia di immediata evidenza la mancata disciplina che il ricorrente intende dare ad uno o più rapporti pendenti: carenza che è parificabile, a mio parere, all’ipotesi in cui il sovraindebitato ometta di indicare nel passivo una o più poste di debito.
I riferimenti normativi li traggo dagli articoli che prevedono come requisito della domanda e dell’omologazione la fattibilità del piano o dell’accordo (artt. 8, secondo comma, 9, secondo comma, 12, primo comma, 12 bis, terzo comma, 15, sesto comma).
E si badi che la fattibilità del piano non costituisce solo un requisito del piano, ma rientra anche nell’oggetto dell’attestazione del gestore della crisi.
Non è chi non veda che, laddove la proposta di piano, la proposta di accordo o l’attestazione abbiano omesso di considerare una parte del patrimonio del debitore (costituita dal passivo derivante da rapporti pendenti), sopravvenga, per forza di cose, una difficoltà di ordine pratico al momento dell’esecuzione del programma di ristrutturazione.
Ed è altrettanto evidente che il superamento di tale difficoltà comporterà l’assunzione di decisioni o determinazioni che dovevano essere esposte originariamente nel piano o nell’accordo e che dovevano essere oggetto di votazione da parte del ceto creditorio.
Dopo quanto ho detto sopra, le conseguenze di ordine pratico e giuridico che derivano dal piano incompleto presentato dal sovraindebitato, e non corretto dall’OCC, le lascio volentieri all’intuizione del lettore.
9.- … ed i piani stravaganti
Se, come abbiamo visto sopra, la ristrutturazione del passivo può passare attraverso la modificazione dell’oggetto originario dell’obbligazione, e, qualora si ritenga ammissibile, anche attraverso la modificazione ed il trasferimento di diritti reali, altri programmi che la pratica applicativa ha posto in evidenza risultano – per così dire – "stravaganti".
Tra i vari piani che mi permetto di definire in tal modo, rientra a pieno titolo il piano o l’accordo col quale il sovraindebitato propone una lunghissima dilazione dei termini di pagamento delle proprie obbligazioni.
Ho notato che va molto, diciamo, di moda la previsione di un termine ventennale o ultraventennale di adempimento.
In qualche altro caso ho notato che il debitore (qui solitamente un amministratore di una società fallita o ammessa al concordato preventivo) istituisce un trust a servizio della proposta di accordo e della ristrutturazione del passivo.
Ora, per ciò che concerne il piano o l’accordo ventennale, occorre considerare che l’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n° 89 ha fissato un termine per la ragionevole durata del processo.
Per ciò che concerne le procedure concorsuali (tra le quali rientrano quelle previste dalla legge n° 3/2012, stante il disposto dell’articolo 6, primo comma, della legge stessa), il termine di ragionevole durata fissato dalla legge n° 89/2001 è pari a sei anni.
Nell’ipotesi di superamento del predetto termine la legge n° 89/2001 riconosce a ciascun creditore il diritto al pagamento di un indennizzo variabile, da euro 500 ad euro 1500 per ogni anno di ritardo.
Tale evento, che, come può agevolmente intuirsi, determina una responsabilità dello Stato, non è scongiurato dall’articolo 2, comma 2 quinquies, della legge predetta, la quale non prevede tra le ipotesi di esenzione dal pagamento dell’indennizzo predetto l’ipotesi in cui sia lo stesso debitore in procedura concorsuale a formulare un piano di durata superiore a sei anni.
Peraltro, anche la possibilità che tutti i creditori siano consenzienti non sembra dirimente, posto che essa rappresenta una mera eventualità e che comunque la presenza di voti favorevoli non sembra possa consentire una deroga al disposto imperativo di legge.
Per ciò che concerne invece il trust a servizio del piano o dell’accordo, il tema è quello della verifica che tale istituto non sia strumentalizzato dal debitore:
_ al fine di sottrarre tutto o parte dell’attivo alla gestione prevista dalla legge, oppure
_ al fine di riservare ad una parte del passivo (ossia ad alcuni creditori) una soddisfazione che sia sostanzialmente fuori dal concorso.
Non voglio qui dilungarmi sull’istituto in esame e sulle norme che lo disciplinano.
Sottolineo però che in genere il caso del c.d. trust sham ricorre quando l’atto istitutivo o quello di dotazione presentino alcuni indici sintomatici, che presuntivamente portano a ritenere che esso sia stato fatto al fine di frodare i creditori.
Tra questi indici possiamo annoverare (senza pretesa di completezza):
_ l’istituzione avvenuta nel periodo in cui la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte dal debitore ed il suo patrimonio prontamente liquidabile era già palese;
_ l’indicazione di finalità del trust irrealizzabili o fantasiose;
_ la designazione a trustee o a guardiano del trust di parenti, amici, professionisti del disponente;
_ la redazione dell’atto istitutivo di trust mediante scrittura privata autenticata (precauzione notoriamente utilizzata dai notai in presenza di atti giuridici di dubbia validità o efficacia);
_ il conferimento al disponente di ampi poteri di controllo ed intervento sugli atti del trustee;
_ la segregazione dei cespiti dell’attivo in modo tale da conservare la loro originaria destinazione.
Pertanto, ricorrendo tali indici sintomatici, o siamo in presenza di un trust c.d. sham e come tale invalido perché meramente apparente (qualora il trust sia stato sottoposto alla Trust jersey law del 1984, come spesso avviene), oppure di un trust diretto a sottrarre la garanzia generica dei creditori o a modificare la regola della pari condizione di soddisfazione (art. 2740 cc).
Le conseguenze di tale evenienza sono alla portata di tutti.
10.- Alcuni problemi in tema di esecuzione dell’accordo e del piano
Non intendo trattare a fondo il tema dell’esecuzione del piano o dell’accordo.
Segnalo solo due temi.
Il primo è che solo nell’art. 14 novies, secondo comma (dunque solo per la procedura di liquidazione del patrimonio), si prevede una norma che disciplina le formalità di vendita.
In particolare è stabilito nel predetto articolo che "le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione sono effettuati dal liquidatore tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati" (il testo è stato letteralmente ripreso dall’art. 107, primo comma, della l.f.).
Se questo è previsto solo per la liquidazione del patrimonio, c’è allora da domandarsi con quali forme debbano avvenire le vendite nel piano o nell’accordo, ovviamente per la parte in cui il piano o l’accordo nulla espressamente prevedano.
Secondo tema.
Qui mi ricollego alla carenza di disciplina dei rapporti pendenti, già sopra menzionata.
Segnalo che nulla è previsto per il caso in cui l’organo, che procede alla liquidazione dei beni, addivenga a tale liquidazione mediante il subentro in contratti pendenti.
Il pensiero corre subito al caso, frequentissimo, del preliminare di vendita immobiliare nel quale può subentrare, se così è previsto nel piano o nell’accordo, l’organo che gestisce la liquidazione.
Siamo anche in questo caso in presenza di un atto di espropriazione forzata, oppure di un semplice atto di autonomia negoziale tra privati?
Le conseguenze che derivano dalla soluzione di tale problema sono rilevantissime, sol che si consideri che, nel caso si tratti di una vendita forzata, vi è purgazione delle formalità iscritte sul bene e l’acquirente lo acquista libero da pesi; mentre nel caso si tratti di un atto di autonomia privata, l’acquirente compra con i pesi e col gli oneri che gravano sul bene stesso.
In altre sedi ho già espresso la mia opinione circa la natura di questi atti di alienazione compiuti mediante subentro dell’organo della procedura in un contratto pendente.
Si tratta, a mio parere, di atti di espropriazione forzata, in quanto vengono realizzati:
_ indipendentemente dalla volontà del debitore-proprietario del bene,
_ sotto la sorveglianza dell’autorità giudiziaria,
_ nell’interesse di tutti i creditori e
_ terminano con la ripartizione del ricavato in favore dei creditori predetti, siano essi privilegiati o chirografari.
Anche qui, non mi dilungo sulle modalità di vendita dei beni e sulle difficoltà che sorgeranno, a causa della carenza di un complesso di norme che detti regole ben definite, quando il gestore della crisi chiederà ad un notaio di ricevere l’atto di alienazione.
Tengo però a sottolineare che, per quanto tali vendite siano deformalizzate, il baluardo della tutela del creditore ipotecario o titolare di altra prelazione trascritta rimane l’avviso che l’organo gestore deve inviargli e l’attesa di un certo termine entro il quale il creditore potrebbe decidere di far valere le proprie ragioni: il tutto analogamente a quanto avviene nel fallimento ai sensi dell’art. 107, quarto comma, l.f. ("Per i beni immobili e gli altri beni iscritti nei pubblici registri, prima del completamento delle operazioni di vendita, è data notizia mediante notificazione da parte del curatore, a ciascuno dei creditori ipotecari o comunque muniti di privilegio").
11.- La cessazione della procedura di accordo o di piano
Un ultimo breve cenno alle varie ipotesi di cessazione della procedura di sovraindebitamento, disciplinato (più che da un complesso, da) un groviglio di norme.
Occorre tenere distinti accordo e piano.
Per ciò che concerne l’annullamento dell’accordo, il testo normativo appare di più semplice lettura, giacché la norma cardine appare quella dell’art. 14, primo comma.
L’annullamento può essere chiesto "quando è stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell'attivo ovvero dolosamente simulate attività inesistenti".
La disciplina della risoluzione dell’accordo è invece contenuta nell’art. 14, secondo comma.
La risoluzione dell’accordo può essere domandata "Se il proponente non adempie agli obblighi derivanti dall'accordo, se le garanzie promesse non vengono costituite o se l'esecuzione dell'accordo diviene impossibile per ragioni non imputabili al debitore".
Esaminiamo ora il piano del consumatore.
Per il piano del consumatore sono previsti due diversi istituti: la revoca e la cessazione degli effetti dell’omologazione (art. 14 bis).
Quest’ultima poi (la cessazione degli effetti dell’omologazione) è distinta in due sottospecie: la cessazione di diritto dell’efficacia dell’omologazione (art. 14 bis, che rimanda all’art. 11, quinto comma) e la cessazione "su istanza di ogni creditore".
Della prima parleremo a breve.
Quanto alla seconda, mi pare che in essa siano stati unificati – riferendole al solo piano del consumatore – i due istituti sopra visti: quello dell’annullamento e della risoluzione dell’accordo del debitore.
L’art. 14 bis, secondo comma, prevede infatti due ipotesi di cessazione degli effetti dell’omologazione "su istanza di ogni creditore":
a) "quando è stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell'attivo ovvero dolosamente simulate attività inesistenti" (stessi identici requisiti sono previsti per l’annullamento dell’accordo del debitore: art. 14, primo comma);
b) "se il proponente non adempie agli obblighi derivanti dal piano, se le garanzie promesse non vengono costituite o se l'esecuzione del piano diviene impossibile anche per ragioni non imputabili al debitore" (stessi identici requisiti, fatta eccezione per l’"anche", vengono previsti per l’azione di risoluzione dell’accordo del debitore: art. 14, secondo comma).
Francamente non si comprende proprio perché il legislatore abbia chiamato tali istituti annullamento e risoluzione nell’accordo e li abbia invece denominati cessazione degli effetti dell’omologazione su istanza dei creditori nel caso del piano: la sostanza è la stessa e le norme che disciplinano gli istituti sono redatte con gli stessi termini, come abbiamo visto sopra.
Accanto alla risoluzione, all’annullamento ed alla cessazione degli effetti dell’omologazione "su istanza", abbiamo anche due altri istituti: la revoca e la cessazione "di diritto" degli effetti dell’accordo o del piano.
Quanto all’accordo essi sono disciplinati dall’art. 11, quinto comma.
La disposizione è tuttavia richiamata dall’art. 14 bis, primo comma, per ciò che concerne il piano del consumatore.
La disciplina è dunque identica (art. 11, quinto comma).
Accordo e piano sono revocati "se risultano compiuti durante la procedura atti diretti a frodare le ragioni dei creditori".
Si verifica invece la cessazione di diritto dell’efficacia dell’accordo o la cessazione di diritto degli effetti dell’omologazione del piano "se il debitore non esegue integralmente, entro novanta giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti secondo il piano alle amministrazioni pubbliche e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie".
Direi che, a questo punto, le complicazioni sarebbero già sufficienti.
Ma il legislatore del 2012 non ha voluto lasciarci con così pochi problemi interpretativi ed allora, accanto ai suddetti istituti, ha previsto anche altre ipotesi di cessazione (uso il termine in senso atecnico) del piano o dell’accordo.
Alludo al "venir meno" dell’obbligatorietà dell’accordo omologato (art. 12, quarto comma) ed al "venir meno" del divieto di prosecuzione delle azioni esecutive o cautelari o di acquisto di cause di prelazione (art. 12 ter, quarto comma).
Non riesco proprio a scorgere l’utilità di queste disposizioni.
La prima infatti deriva, secondo il testo di legge:
_ dalla risoluzione dell’accordo (ma qui siamo in presenza di un effetto che deriva già dalla stessa risoluzione), oppure
_ dal mancato pagamento dei crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all'articolo 7, comma 1, terzo periodo (e qui siamo in presenza di una causa di risoluzione dell’accordo stesso).
La seconda deriva, sempre secondo il testo di legge:
_ dal mancato pagamento dei titolari di crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all'articolo 7, comma 1, terzo periodo (e anche qui siamo in presenza di una causa di risoluzione dell’accordo).
12.- Osservazioni conclusive
Non ho toccato tutti i punti della legge sul sovraindebitamento che avrebbero meritato una trattazione.
Ma già da quanto sopra esposto, possiamo agevolmente notare che il testo normativo, a causa della sua prolissità e della scarsa chiarezza, sarà destinato a suscitare notevoli problemi, non solo e non tanto agli organismi di composizione della crisi ed ai tribunali, ma agli stessi debitori, che si rivolgono all’autorità giudiziaria affinché vengano risolti i problemi che essi hanno, e non certo affinché ne vengano creati di nuovi.
Mi auguro solo che il legislatore, se effettivamente vuole garantire ai sovraindebitati uno strumento che possa garantire loro la risoluzione della crisi nella quale si trovano, si renda conto che il testo normativo va profondamente rivisto e semplificato.
Nell’opera di semplificazione, riterrei inoltre opportuno considerare che la prassi applicativa ha oggi dimostrato che i sovraindebitati appartengono a due macrocategorie: la prima composta da consumatori veri e propri; la seconda composta da soggetti ex imprenditori o garanti di imprenditori decotti.
È, prima di tutto, tenendo conto di queste due categorie che andrebbe rivisto il complesso normativo, onde evitare di apprestare in favore del sovraindebitato una via di fatto impercorribile per i costi stessi di procedura.
Bologna, 28 ottobre 2016.
Luciano Varotti
(Consigliere Corte d’appello di bologna)