Come noto, la norma equipara agli infortuni in occasione di lavoro anche i cd. infortuni in itinere, ovvero quelli "occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro".
Da tempo, alla "causa violenta" viene equiparata la "causa virulenta", ovvero "l'azione di fattori microbici e virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomico fisiologico, sempreché tale azione - pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo - sia in rapporto (accertabile anche con ricorso a presunzioni semplici) con lo svolgimento dell'attività lavorativa".
In tal senso si è sempre pronunciata la Cassazione[1], e l’orientamento è stato recepito dall’Inail nella circolare n. 74 del 23.11.1995 che ha esteso la protezione assicurativa, già riconosciuta a partire dal 1993 per i casi di epatite virale a trasmissione parentale e di AIDS, a tutte le malattie infettive e parassitarie.
Come abbiamo visto, è comunque in ogni caso richiesta dalla norma l’"occasione lavorativa", ai fini dell’indennizzo dell’evento dannoso da parte dell’ente.
A questo proposito la Corte di Cassazione (seguendo l’insegnamento dottrinale) ha precisato che "ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio subito dall'assicurato, per ‘occasione di lavoro’ devono intendersi tutte le condizioni, comprese quelle ambientali e socio - economiche, in cui l'attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che tale danno provenga dall'apparato produttivo o dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, col solo limite, in quest'ultimo caso, del c.d. rischio elettivo, ossia derivante da una scelta volontaria del lavoratore diretta a soddisfare esigenze personali (fra le tante, Cass. n. 2942/2002; di recente, Cass. n. 12779/2012)"[2].
L’art. 42 Decreto Cura Italia stabilisce quindi che "Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell'oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell'allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante "Modalità per l'applicazione delle tariffe 2019". La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati".
Con la circolare n. 13 del 3 aprile 2020 l’Inail ha chiarito che:
- la disposizione in esame - in linea con l’indirizzo che equipara la causa virulenta alla causa violenta - assicura una più ampia tutela all’infortunato poiché opera per tutti i lavoratori assicurati all’Inail (quindi i lavoratori dipendenti ed assimilati, i lavoratori "parasubordinati" e quelli operanti nell’area dirigenziale) anche nei casi di infezione da coronavirus contratta in occasione di lavoro;
- l’ambito della tutela, nell’attuale situazione pandemica, riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti ad un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico, per i quali vige pertanto la presunzione semplice di origine professionale considerata l’elevatissima probabilità che essi vengano a contatto con il nuovo coronavirus;
- ad una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza (ad es. cassieri, banconisti e personale non sanitario con mansioni tecniche o ausiliarie e di supporto operante all’interno degli ospedali), per cui vige il principio della presunzione semplice operante per i sanitari[3];
- in tutti gli altri casi, nei quali l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, "né si possa presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga", l’accertamento medico legale seguirà l’ordinaria procedura "privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale".
La circolare Inail 13/2020 offre, dunque, norme ed indicazioni interpretative che fissano i presupposti per l’erogazione dell’indennizzo da parte dello stesso Istituto, per il quale è sufficiente l’"occasione di lavoro" anche con colpa esclusiva del lavoratore: questi requisiti sono del tutto distinti e diversi dai presupposti per la responsabilità civile e penale del datore di lavoro, da accertarsi in concreto ai fini del risarcimento del danno ulteriore, come ha anche chiarito l’Inail da ultimo nella circolare n. 22 del 20.05.2020.
Inoltre, l’art. 42 Decreto Cura Italia stabilisce nell’ultima parte del comma 2 che gli eventi infortunistici così riconosciuti gravano sulla gestione assicurativa nel suo complesso e quindi non comportano maggiori premi per il datore di lavoro.
3. Le condizioni per l’accertamento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro nel caso di azione giudiziale del dipendente
3.1 La responsabilità civile del datore di lavoro per l’infortunio nel caso di azione del dipendente: limiti e condizioni – oneri probatori
L’art. 42 del Decreto Cura Italia non introduce una nuova fattispecie di responsabilità civile o penale del datore di lavoro, ma estende la tutela assicurativa INAIL al lavoratore che abbia contratto l’infezione in "occasione di lavoro" accertata (o presunta nei casi in cui ciò sia possibile).
L’eventuale responsabilità civile del datore di lavoro continuerà ad essere regolata dai principi generali in materia, ed in primo luogo dalle previsioni dell’art. 10 del T. U. che, enunciato il principio generale di esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile, consente al lavoratore (o ai suoi congiunti) il risarcimento dell’eventuale ulteriore danno aggiuntivo rispetto a quello assicurato e liquidato dall’Inail secondo le norme del T.U.[4], ma solo quando sia giudizialmente accertato che l’infortunio sia derivato:
- da un fatto imputabile al datore di lavoro (con la conseguente prova dell’elemento soggettivo);
- che costituisca illecito penale perseguibile d’ufficio;
- per la violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di igiene e sicurezza del lavoro.
L’accertamento di tali condizioni può avvenire anche in sede civile (all’esito del lungo percorso tracciato dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 22/1976, 102/1981, 118/1986), ma deve comunque essere effettuato nel rispetto dei principi dell’ordinamento penale (anche in materia di onere della prova) di cui si dirà nel paragrafo successivo.
Sarà invece regolato dai generali principi civilistici in materia di accertamento della pretesa responsabilità contrattuale del datore di lavoro, con conseguente onere di quest’ultimo di provare l’assenza di colpa ex art. 1218 c.c., il risarcimento degli eventuali danni non compresi ab origine nell’assicurazione Inail[5] (per i quali pertanto non opera l’esonero di cui all’art. 10 citato) conseguenti all’inadempimento datoriale per la mancata adozione delle misure di sicurezza generiche, ai sensi dell’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutela l’integrità fisica e morale del lavoratore; e specifiche, quali quelle prescritte dal Testo unico n. 81/2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro o da altre leggi speciali.
Come la giurisprudenza è costante nell’affermare[6], sarà a carico del lavoratore provare:
- l’esistenza dell’obbligazione lavorativa;
- il danno patito;
- il nesso causale tra il danno e la prestazione lavorativa;
- l’omissione del datore di lavoro nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno.
Il lavoratore eventualmente contagiato dovrà dunque dimostrare che l’infezione è stata contratta durante la prestazione lavorativa (o durante il percorso casa/lavoro).
Quanto alla responsabilità del datore di lavoro, questi sarà esente da colpa se provi di essersi adoperato in tutti i modi, tenuto conto della peculiarità dell’attività svolta e dello stato dell’esperienza e della tecnica, per evitare il danno, oltre che nel caso in cui l’infortunio sia conseguenza del dolo del lavoratore o di una sua condotta abnorme ed imprevedibile[7].
Il datore di lavoro dovrà dunque dare prova dell’adozione e del puntuale rispetto nell’ambiente di lavoro da parte del datore di lavoro delle prescrizioni dei protocolli recentemente sottoscritti da Governo e parti sociali, delle linee guida, dei protocolli specifici anche a livello regionale e delle schede tecniche per gli specifici settori di attività[8].
Queste prescrizioni, infatti, in forza dell’espresso rinvio ripetutamente operato dai provvedimenti governativi succedutisi negli ultimi mesi (si veda in particolare il D.L. 33/2020, art. 1 comma 14, e, da ultimo, il DPCM 17.05.2020 nel quale sono tutte richiamate), sono da ritenersi dotate di efficacia vincolante e generale e – data l’assoluta novità della pandemia e l’assenza di normativa specifica a riguardo – sono da considerarsi al momento l’espressione dello stato attuale dell’esperienza e della tecnica con cui il datore di lavoro è chiamato a confrontarsi.
Come suggerito anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella nota del 13.03.2020, ed in conformità dei principi di cui al D. Lgs. n. 81/2008, sarà utile (anche al fine di dare evidenza delle misure adottate) la predisposizione da parte dell’impresa, in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione e con il Medico Competente, di un piano di intervento che - in base al contesto aziendale ed al profilo dei lavoratore - individui e dia specifica attuazione alle misure di prevenzione e che di tutte le azioni intraprese in attuazione al piano sia data evidenza in un’appendice del Documento di Valutazione dei Rischi[9].
Tuttavia, come vedremo anche al paragrafo seguente, non si può affermare con certezza che, allo stato attuale della elaborazione giurisprudenziale, l’ottemperanza a linee guida e protocolli sia sufficiente a ritenere assolto l’obbligo di garantire la sicurezza gravante sul datore di lavoro, perché resta comunque uno spazio di apprezzamento discrezionale del giudice consentito dall’art. 2087 c.c. o da altre norme speciali.
Ad esempio, l’art. 83 D. L. n. 34/2020 prescrive a carico dei datori di lavoro dotati del medico competente un obbligo ulteriore di sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione fino alla data di cessazione dello stato di emergenza per rischio sanitario sul territorio nazionale. Sorveglianza che può essere richiesta ai servizi territoriali dell’INAIL dai datori di lavoro che non sono tenuti alla nomina del medico competente ai sensi dell’art. 18 comma 1 lett. a) D. Lgs. n.81/2008.
3.2 La responsabilità penale del datore di lavoro
Anche in relazione alla possibile responsabilità penale la sussistenza di una "malattia"[10] in occasione di lavoro è condizione necessaria ma ancora non sufficiente, di per sé sola, per ipotizzare in capo al datore di lavoro una responsabilità penale.
A questo fine occorrerà, infatti, valutare ancora se in capo al medesimo vi fossero altresì: la posizione di garanzia, ovvero l’obbligo giuridico di evitare l’evento lesivo; la colpa, sia essa colpa c.d. "specifica o qualificata", ovvero la violazione di prescrizioni di legge o di normativa secondaria che mirano proprio ad evitare l’evento che si è concretizzato (c.d. "norma cautelare"), o colpa c.d. "generica", ovvero la violazione di ordinarie regole di prudenza.
Il quadro normativo cui occorre fare riferimento per l’apprezzamento dei sopra citati presupposti (in particolare, per quanto attiene la posizione di garanzia del datore di lavoro ed il requisito della ‘colpa specifica’) riposa principalmente sulle disposizioni normative che disciplinano la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, ovvero il Decreto Legislativo 81/2008 - che, a sua volta, costituisce un’attuazione del principio generale sancito dall’articolo 2087 c.c., già sopra commentato.
Perciò, al datore di lavoro competono sempre e comunque i seguenti obblighi di carattere generale: "effettuare la valutazione dei rischi[11] derivanti dall'esposizione agli agenti biologici presenti nell'ambiente" (art. 282, commi 1 e 2, lett. a, d.lgs. n. 81 del 2008)[12], "informare i lavoratori circa il pericolo esistente, le misure predisposte e i comportamenti da adottare" (art. 55, comma 5, lett. a, d.lgs. n. 81 del 2008), "fornire i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale" (art. 55, comma 5, lett. d, d.lgs. n. 81 del 2008), "richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti a suo carico" (art. 55, comma 5, lett. e, d.lgs. n. 81 del 2008), "richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione, programmare gli interventi da attuare in caso di pericolo immediato" (art. 55, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 81 del 2008), in caso, poi, di affidamento di lavori a un'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda "cooperare nell'adozione di misure di prevenzione e protezione dai rischi" e "coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori" (art. 55, comma 5, lett. d, d.lgs. n. 81 del 2008).
Al quadro così tratteggiato vanno oggi però aggiunti, in funzione integrativa, la pluralità di interventi di rango secondario (circolari, linee guida, protocolli, ecc.), emanati proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19 sui luoghi di lavoro che, come abbiamo detto, hanno efficacia vincolante e di cui abbiamo sopra fornito un quadro sintetico[13].
Ci si chiede allora, innanzitutto, se possa costituire una violazione della normativa antinfortunistica la mancata adozione di una misura prescritta dai vari provvedimenti che si sono succeduti in queste ultime settimane, o di una misura semplicemente raccomandata (ad esempio, il mancato ricorso allo smart working) o, infine, di misure ulteriori non contemplate nella normativa emergenziale.
Sul punto occorre osservare come uno dei principi cardine del nostro ordinamento in materia di sicurezza sul lavoro consista nel c.d. "principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile", secondo il quale il datore di lavoro, al di là delle specifiche previsioni normative, deve ispirare la propria condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Il principio in parola trova richiamo – oltre che nel d.lgs. n. 81/2008, ove all’art. 15, lett. b si richiede la riduzione dei rischi al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico – anche nell’art. 2087 c.c. che viene interpretato dalla giurisprudenza non solo come una norma di chiusura in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro, ma anche come una disposizione con "una funzione dinamica, in quanto norma diretta a spingere l'imprenditore ad attuare, nell'organizzazione del lavoro, un'efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall'esperienza e dalla tecnica più aggiornata 3 al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro" (cfr. Cass. Civ., Sez. lav., 29 marzo 2019, n. 8911).
Si ritiene, pertanto, che ai fini della valutazione di un’eventuale responsabilità penale del datore di lavoro, non sia possibile distinguere tra misure prescritte e misure semplicemente raccomandate, ma occorra in ogni caso valutare se le procedure adottate siano idonee o, meglio, le più idonee a prevenire i reati citati. Stabilisce, infatti, la Suprema Corte di Cassazione come "la terminologia 'violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' richiamata dagli artt. 589 e 590 c.p. è riferibile non solamente alle norme contenute nelle leggi specificatamente antinfortunistiche, ma anche a quelle che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza sul lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi" (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 17 aprile 2019, n. 33244).
Di particolare importanza, data la peculiarità della situazione, diviene l’obbligo per il datore di lavoro di fornire a tutti i lavoratori tutti gli specifici dispositivi di protezione individuale volti a scongiurare la possibilità di contagio (mascherine, camici, guanti, gel antisettico, ecc.). È proprio quest’ultimo obbligo che, per le specificità proprie del rischio di contagio da Covid-19, risulta, a quanto è dato intendere dalle prime attività di indagine condotte dalle procure rispetto alle strutture sanitarie, maggiormente trascurato.
Sotto questo profilo si apre, però, un’ulteriore fronte di valutazione, poiché l’articolo 18, lett. d) del D.Lgs. n. 81/2008 richiede che i dispositivi di protezione individuale debbano essere ‘idonei’, ovvero adeguati a prevenire il rischio di malattia o infortunio secondo la migliore scienza ed esperienza del settore di riferimento. Ed allora non basterà, ad esempio, fornire ai lavoratori le mascherine, ma queste dovranno essere mascherine adeguate a prevenire il contagio da Covid-19, ovvero quantomeno certificate secondo i parametri previsti dal S.S.N. È evidente che la violazione del predetto obbligo potrà risultare già di per sé stessa sufficiente a costituire l’inosservanza di una norma cautelare idonea a suffragare una contestazione di responsabilità penale per lesioni o per omicidio per colpa specifica consistente in (evidente) violazione di legge.
Agli oneri suddetti seguirà poi l’ulteriore non trascurabile obbligo di verificarne costantemente la corretta attuazione da parte di tutti i lavoratori e non solo: deve, infatti, tenersi sempre presente che l’obbligo di tutela vale anche nei riguardi degli infortuni (incluso, ovviamente, il contagio) patiti da terzi (ad esempio, visitatori, fornitori, ecc.) nell’area di pertinenza dell’azienda. È, invero, giurisprudenza consolidata quella secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, il soggetto beneficiario della tutela è anche il terzo estraneo all'organizzazione del lavoro, sicché dell'infortunio che sia occorso all'extraneus risponde il garante della sicurezza, sempre che l'infortunio rientri nell'area di rischio definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a pericolo (così, Cass. pen., Sez. IV, 17 giugno 2014, n. 43168, Rv. 260947)[14].
In conclusione, per evitare il "rischio penale", l’imprenditore non potrà limitarsi ad adottare gli adempimenti formali richiesti dalle norme, ma dovrà assicurarne il pieno rispetto mediante ripetuti controlli da parte di soggetti specificatamente preposti allo scopo, documentando con la massima precisione ogni attività ad esempio mediante la tenuta di registri specifici, fermo restando che l’onere della prova della violazione delle succitate norme cautelari di rango primario e secondario spetta comunque al soggetto danneggiato, ovvero alla pubblica accusa a cui quest’ultimo si sia rivolto con una denuncia.
E l’adempimento di tale onere non sarà affatto semplice considerato che non sono ancora chiare le modalità di contagio da Covid-19 e che il virus ha un’incubazione di circa quattordici giorni nell’ambito dei quali si potrebbero inserire diverse occasioni di contagio. Soltanto per alcune categorie professionali considerate ad elevato rischio (si pensi ai sanitari e ai dipendenti dei supermercati), l’Inail ha introdotto – come abbiamo visto – una presunzione di contagio in occasione del lavoro, ma la presunzione non può valere in sede penale per l’apprezzamento della responsabilità del datore di lavoro, né ai fini dell’individuazione della responsabilità amministrativa dell’ente ex D.Lgs. 231/2001 (cfr. anche la circolare Inail n.22/2020).
Restano pertanto in vigore i normali criteri di imputazione del reato in base ai quali la responsabilità del datore di lavoro non può prescindere dalla necessità dell’accertamento dell’ulteriore requisito del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento malattia.
Il tema del nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale è stato già approfonditamente affrontato dalla Suprema Corte con numerose sentenze in materia di amianto, operando un distinguo tra causalità generale (l’ambiente ricco di amianto è idoneo a generare malattie professionali quali asbestosi ed altre) e causalità individuale (quel certo lavoratore ha contratto il tumore o la malattia a causa dell’esposizione all’amianto in quello specifico ambiente di lavoro), ponendo quindi l’accento sulla necessità di accertare nel singolo caso concreto la presenza del nesso di causalità individuale. Appare, allora, evidente come potrebbe essere difficile dimostrare, in concreto ed al di là di ogni ragionevole dubbio, un nesso di derivazione diretta tra la condotta del datore di lavoro e l’infezione contratta dal lavoratore, non potendosi escludere che quest’ultimo possa essere entrato in contatto con il virus in occasioni estranee all’ambiente lavorativo.
Dovrà, altresì, sempre essere dimostrato che il contatto con l'agente patogeno sia avvenuto per la mancata adozione di idonee misure anti Covid e non, invece, per condotte abnormi o esorbitanti dei dipendenti o di terzi, capaci di recidere il nesso di causalità e escludere quindi la responsabilità delle strutture sanitarie. A tal proposito, è opportuno ricordare, che nella giurisprudenza di legittimità è considerata interruttiva del nesso di causalità "la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell'area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro" (Cass. pen., Sez. IV, 16 febbraio 2015, n. 6741).
In tema di reati omissivi l'accertamento del nesso di causalità dovrà essere sottoposto alla rigida prova del c.d. giudizio controfattuale, il quale richiede che, ipotizzandosi l'effettuazione dell'azione doverosa omessa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, si possa concludere, con elevato grado di credibilità razionale, che l'evento non avrebbe avuto luogo.
In particolare, in tema di lesioni colpose o omicidio colposo, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto sussistente il nesso causale tra ambiente di lavoro insalubre ed affezioni morbose contratte dal lavoratore non solo quando emerge con certezza che l'adozione delle norme precauzionali avrebbe scongiurato il prodursi dell'evento dannoso, ma anche nei casi in cui, pur non potendosi escludere in assoluto la possibilità di un diverso meccanismo causale, non risultino dotate di ragionevole concretezza ipotesi alternative dell'insorgere dei processi morbosi per cause, ovvero concause, del tutto indipendenti dall'accertata insalubrità dell'ambiente (Cass. pen., Sez. IV, 14 luglio 2006, n. 41939, Rv. 235162).
Andrà, altresì, dimostrato da parte della pubblica accusa che i sintomi o il decesso sono causa dell'esposizione al virus e non conseguenza di altre patologie cliniche. Anche tale prova non sarà facile da fornire, atteso che dalle cronache risulta che in moltissimi casi (sia di ricoveri per malattia, ma anche in casi di decesso) non siano nemmeno stati eseguiti esami scientificamente idonei a dimostrare l'avvenuto contagio.
4. Le condizioni dell’eventuale azione di regresso dell’INAIL
Anche le condizioni dell’eventuale azione di regresso dell’Inail nei confronti dell’impresa – per il recupero di quanto riconosciuto al lavoratore per l’infortunio subito – sono autonome e distinte da quelle stabilite dall’art. 2 T.U. per il riconoscimento dell’indennizzo in favore del lavoratore[15], dato che trattasi di azione speciale, di natura contrattuale, che compete all’Inail iure proprio contro le persone civilmente responsabili[16].
Come prevede l’art. 11 del Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, infatti, "L'Istituto assicuratore deve pagare le indennità anche nei casi previsti dal precedente articolo, salvo il diritto di regresso per le somme pagate a titolo d'indennità e per le spese accessorie contro le persone civilmente responsabili. La persona civilmente responsabile deve, altresì, versare all'Istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell'ulteriore rendita dovuta, calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39".
Anche a seguito dei numerosi interventi della Corte costituzionale, la norma è interpretata dalla giurisprudenza, nel combinato disposto con l’art. 10 già sopra richiamato, nel senso che: "l'azione di regresso dell'INAIL nei confronti della persona civilmente obbligata, può essere esperita alla sola condizione che il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio, mentre il preventivo accertamento giudiziale del fatto stesso necessario solo in mancanza di adempimento spontaneo del soggetto debitore o di bonario componimento della lite non deve necessariamente avvenire in sede penale, potendo essere effettuato anche in sede civile (salvo il riscontro dell'eventuale pregiudizialità penale)"[17].
Dunque, anche in tal caso, e fatta salva la prescrizione triennale dell’azione ex art. 114 del T.U., è necessario – in presenza di un fatto reato perseguibile ex officio - l’accertamento dell’eventuale responsabilità del datore di lavoro (autonomamente accertabile anche dal giudice civile), con la necessità della prova, in questo caso gravante sull’ente assicuratore, di una condotta colposa del datore di lavoro[18].
Inoltre, come la norma recita, il regresso dell’Inail è strettamente limitato a quanto dall’Inail riconosciuto al lavoratore.
Infine, rileviamo che l'art. 1, comma 1126, lett. g), L. 30 dicembre 2018, n. 145 (cd. Legge di Bilancio 2018), con decorrenza dal 1°gennaio 2019 ha aggiunto all’art. 11 il seguente comma, tuttora vigente nonostante la successiva abrogazione degli altri interventi apportati dalla Legge di Bilancio 2018[19]: "Nella liquidazione dell'importo dovuto ai sensi dei commi precedenti, il giudice può procedere alla riduzione della somma tenendo conto della condotta precedente e successiva al verificarsi dell'evento lesivo e dell'adozione di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro. Le modalità di esecuzione dell'obbligazione possono essere definite tenendo conto del rapporto tra la somma dovuta e le risorse economiche del responsabile". Anche questa previsione[20] ci sembra agevolare la posizione del datore di lavoro.
5. Profili di responsabilità della società ex D. Lgs. 231/01
Alla responsabilità penale del datore di lavoro, potrebbe affiancarsi, come già accennato nel paragrafo 3.2, anche la responsabilità della società (per i datori di lavoro organizzati in enti dotati di autonoma personalità giuridica), per violazione del D. Lgs. n. 231/2001 che, nel novero dei reati presupposto, all'art. 25-septies, ricomprende anche le fattispecie di cui agli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) c.p., commesse in violazione della normativa a tutela dell'igiene e della sicurezza sul lavoro di cui al D. Lgs. n. 81/2008.
Per aversi la responsabilità dell’impresa ai sensi del D.lgs. n. 231/2001 occorreranno, tuttavia, cumulativamente le seguenti condizioni:
- il reato presupposto deve essere stato commesso da un soggetto che rivesta funzione di rappresentanza, amministrazione o direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria o funzionale, nonché da persone che esercitino anche di fatto la gestione o il controllo dello stesso, o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno di questi soggetti;
- il reato deve essere stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente;
- l'ente deve essere sprovvisto di un adeguato Modello Organizzativo idoneo alla prevenzione del reato presupposto: l’art. 6, comma 1 lett. a del D.Lgs. n. 231/2001 prevede, infatti, che l’Ente non risponde per il reato commesso dalle persone in posizione apicale se prova di aver "adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi".
Le conseguenze per l’ente, in caso di riconoscimento della colpa di organizzazione, potrebbero essere particolarmente gravi: potrebbero essere applicate, ex art. 9, D. Lgs. n. 231/2001, sanzioni pecuniarie, interdittive, patrimoniali (confisca) nonché la pubblicazione della sentenza di condanna.
Il tema della responsabilità penale-amministrativa dell’ente ex D. Lgs. n. 231/2001 è amplissimo e, dopo un inizio un po' stentato, oggi trova ampia applicazione da parte degli uffici requirenti e meriterebbe, dunque, una trattazione particolarmente approfondita, ma l’economia e la finalità del presente lavoro impongono di limitare la disamina dei profili della responsabilità amministrativa dell’ente agli aspetti di più stretta attinenza alle fattispecie di reato connesse con il contagio da Covid-19.
L’aspetto più interessante ai nostri fini appare, quindi, quello attinente al profilo dell’interesse o vantaggio per l’ente. Assunto, infatti, che nessun ente/datore di lavoro può avere ‘interesse’ né ‘vantaggio’ a che i propri dipendenti contraggano il virus in questione (così come qualunque altra malattia o infortunio all'interno dell'ambiente lavorativo), il requisito del vantaggio dell'ente potrebbero essere ravvisato, come più in generale avviene per tutte le ipotesi di infortuni sul lavoro, nel risparmio conseguente al mancato acquisto dei dispositivi di protezione individuali (DPI) specifici (guanti, mascherine, gel igienizzante, ecc.), oppure nella mancata riduzione dell'attività produttiva, che si sarebbe, invece, verificata in caso di adozione delle misure prescritte per legge (distanziamento, divieto di assembramenti, scaglionamenti, ecc.)[21]. Il requisito dell’interesse dell’ente viene individuato dalla Suprema Corte quando "l’evento dannoso è il risultato della mancata adozione di specifiche misure di prevenzione a fronte di un interesse rilevante dell’ente a porre in essere l’attività pericolosa nonostante la condotta colposa" (Cass. Sez. IV, 27 settembre 2019, n. 39741, in www.aodv231).
Tali requisiti astratti andranno però calati nel concreto della realtà emergenziale ove, ad esempio, la mancata adozione di presidi antinfortunistici potrebbe essere dipesa non dalla volontà di risparmio, ma dalla obiettiva difficoltà di procurarli.
Altro profilo problematico riguarda la necessità o meno di procedere ad un adeguamento del modello rispetto ai nuovi profili di rischio connessi al contagio da Covid-19, con tutto ciò che ciò comporta considerando che ogni modifica del modello deve essere approvata dall’Organo dirigente dell’ente e non può essere in alcun modo delegata.
Si ritiene che, più che un adeguamento della struttura del modello (il quale normalmente già dovrebbe prevedere una sezione relativa alla prevenzione degli infortuni e malattie sul lavoro), sarebbe più agevole ed efficace intervenire sui protocolli aziendali a cui quest’ultimo generalmente rimanda per i dettagli più strettamente operativi[22].
Come già sopra esposto, dovranno pertanto essere predisposti e adottati dei protocolli aziendali, possibilmente di concerto con i sindacati, che recepiscano tali indicazioni e che consentano un'operatività aziendale conforme ai requisiti di sicurezza anti Covid. Tali protocolli andranno ad integrare i sistemi di compliance aziendale già esistenti in materia di infortuni sui luoghi di lavoro nonché, di rimando, il modello di organizzazione e gestione.
In quest’ottica, assume particolare pregnanza il dovere di aggiornamento del DVR (Documento di Valutazione del Rischio) previsto dal D. Lgs. n. 81/2008, e di cui sopra si è detto, in quanto attività ricompresa nella mappatura e nella valutazione dei rischi legati alla salute e alla sicurezza dei luoghi di lavoro: l’art. 30 del D. Lgs. n. 81/2008 prescrive, infatti, che il modello di organizzazione ex D. Lgs. n. 231/2001 debba essere "adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi".
Assumerebbe, invece, particolare rilievo l’attività svolta dagli Organismi di Vigilanza (Odv). Agli OdV, infatti, compete di verificare le attività di prevenzione a presidio delle aree di rischio reato, di cui al catalogo 231, poste in essere dall’azienda. In tale specifico contesto l’attività di vigilanza si potrebbe concretizzare acquisendo la valutazione del rischio da Covid-19 effettuata dall’ azienda (secondo quanto riportato nel DVR o in un suo allegato), verificando la reale attuazione delle prescrizioni (constatando e documentando la concreta attuazione delle prescrizioni indicate).
A questo scopo, pur tenendo conto delle problematicità date dalla situazione contingente ove gli accessi in azienda saranno necessariamente limitati dalle misure emergenziali, dovranno essere istituiti idonei flussi informativi dalle funzioni aziendali preposte alla gestione del rischio Covid-19, sia rispetto alle azioni preventive attuate sia, nel caso di avvenuto contagio, sulle ulteriori procedure adottate per contenere il contagio.
Sarà, quindi, particolarmente importante che gli organismi di vigilanza delle imprese dotate di Modello Organizzativo operino in maniera rigorosa per vigilare che la peculiare situazione creatasi in funzione dell’emergenza non costituisca occasione per violazioni del modello anche sotto profili che esulano dagli specifici profili di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
6. Conclusioni
L’art. 42 Decreto Cura Italia non introduce una nuova fattispecie di responsabilità del datore di lavoro sul piano civile o penale; la norma si limita ad estendere la tutela assicurativa INAIL al lavoratore che abbia contratto l’infezione in "occasione di lavoro" e, naturalmente, la circostanza andrà provata di volta in volta.
L’onere della prova sarà sempre di chi agisce contro il datore di lavoro (e quindi il dipendente, l’INAIL o il PM, a seconda dei casi).
Peraltro, da tempo la giurisprudenza aveva equiparato alla "causa violenta" dell’infortunio sul lavoro la "causa virulenta", ovvero "l'azione di fattori microbici e virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomico fisiologico, sempreché tale azione - pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo - sia in rapporto (accertabile anche con ricorso a presunzioni semplici) con lo svolgimento dell'attività lavorativa".
Ciononostante, non può essere trascurato il rilievo che, in questo caso, la "causa virulenta" non è, come accaduto in passato, una circoscritta malattia infettiva o parassitaria, ma un virus pandemico che sta stravolgendo la vita economica e sociale di tutti i Paesi del mondo.
Né può essere trascurato il fatto che, alla data odierna, la scienza medica non conosce con esattezza le caratteristiche di questo virus e non sembra ancora in grado di dire perché si trasmette più velocemente in certi casi rispetto ad altri (si pensi ad esempio alle diverse percentuali di contagio tra le regioni italiane e tra i Paesi europei), né, infine, sa con certezza quali sono gli strumenti più adeguati per bloccarne la diffusione (si pensi alle diverse opinioni espresse in merito da virologi epidemiologi e infettivologi ed alle conseguenti contraddizioni tra le varie normative che si sono stratificate in appena tre mesi).
In questo contesto, il "principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile" che è stato elaborato negli anni dalla giurisprudenza- secondo il quale il datore di lavoro, al di là delle specifiche previsioni normative, deve ispirare la propria condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza- espone i datori di lavoro all’alto rischio di subire in larga quantità processi in sede penale e civile che in taluni casi potrebbero avere come esito condanne, magari basate esclusivamente su correnti di pensiero medico di natura "oltranzista".
L’ammirevole tentativo dell’Inail di tranquillizzare i datori di lavoro su questo tema non appare sufficiente a scoraggiare le non altrettanto ponderate iniziative dei parenti delle vittime o degli stessi contagiati che, sull’onda della pur comprensibile sofferenza emotiva per la perdita di un proprio caro o per il calvario della malattia, non esiteranno a cercare un colpevole da biasimare ed a cui chiedere il ristoro delle proprie sofferenze. In rete si legge già della creazione di Comitati votati a raccogliere le lamentele delle vittime o parenti delle vittime del Covid-19 per trasfonderle in altrettante denunce da presentare alla Procura della Repubblica[23].
Non si può neppure escludere che le stesse Procure della Repubblica aprano autonomamente fascicoli su casi che abbiano avuto un’eco mediatica.
La preoccupazione degli imprenditori non è, dunque, infondata e sono pertanto da incoraggiare i tentativi in corso in Parlamento di chiarire che l’applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli e linee guida, nonché l’adozione e il mantenimento delle misure vi previste, costituiscono adempimento dell’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutela l’integrità fisica e morale del lavoratore.[24]
Un siffatto chiarimento normativo avrebbe il pregio di non far gravare sui datori di lavoro le gravi incertezze ancora esistenti nel campo scientifico in relazione al Covid 19 e, al contempo, di indicare, a vantaggio di tutti, datori di lavoro e dipendenti, una cornice normativa al cui interno si troveranno i doveri, i poteri e i diritti di ciascuna parte.
Il datore di lavoro saprà che, rispettando i protocolli e le linee guida, non potranno essergli contestati quei contagi che siano stati originati nonostante l’applicazione scrupolosa degli uni e delle altre.
Questa soluzione avrebbe anche il pregio di ridurre le aree di incertezza in tema di responsabilità della società ex D. Lgs. 231/01 e di consentire un più agevole aggiornamento della valutazione dei rischi (DVR), anche indipendentemente dai risvolti giuridici di tali procedure[25].